La Noce

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Un frutto prezioso

Durante il Medioevo il noce era molto diffuso in gran parte dell’Europa. Prima dell’anno Mille si trovava principalmente inserito all’interno del paesaggio rurale, caratterizzato da una grande varietà di forme: boschi, campi, orti, prati, vigne e pascoli. Ambienti diversi, ciascuno con proprie peculiarità produttive. Questa complessità paesaggistica, tipica dell’Alto Medioevo, si differenzia dalla fisionomia del paesaggio dei secoli successivi che si mostra, indubbiamente, più uniforme.

Tra gli alberi protetti

Tra i secoli XIV e XV era rilevante la presenza di alberi da frutto di diverse varietà. In particolar modo nell’Italia del Nord il noce era tra gli alberi più coltivati, sia in piantagioni apposite dette noerii, sia sotto forma di esemplari sparsi nei campi o lungo i loro confini. Nella maggior parte dei casi si trattava di piante selvatiche poi innestate per migliorarne la produttività.

Il noce, al pari del mandorlo, era tra le piante che godevano di maggior tutela al punto che chiunque ne avesse danneggiato qualche esemplare sarebbe incorso in gravi sanzioni pecuniarie, segno che a quell’albero veniva riconosciuto un grande valore nell’ambito dell’economia del tempo: sia per i suoi frutti sia per il legno e i suoi svariati utilizzi.

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L’albero di Satana

Se da un lato il noce era tenuto in grande considerazione per il suo valore economico va detto che godeva anche di una fama sinistra e inquietante di albero malefico. Nell’immaginario collettivo veniva associato al Maligno, tanto da essere chiamato “l’albero di Satana”. Si credeva che le sue radici fossero tossiche e in grado di far morire la vegetazione circostante; si riteneva addirittura che le stalle e le scuderie costruite con legno di noce avrebbero potuto causare la morte degli animali in esse allevati.

La mentalità popolare annunciava inoltre mali di ogni genere (ad esempio febbri e mal di testa) a chi si fosse per sua sfortuna addormentato sotto un noce, presagendogli per di più sventure e malefici generati da spiriti maligni e divinità infernali. Castor Durante da Gualdo, medico umbro del XVI secolo, nel suo Tesoro della sanità scriveva “L’ombra della pianta è nociva, ché manda fuori un alito cattivo, che aggrava la testa e offende tutti quelli che vi dormono sotto, ché quell’odore penetra subito nel cervello e per questo che si suol piantare appresso le strade”.

Isidoro di Siviglia, padre dell’etimologia medievale, aveva stabilito un rapporto paretimologico tra il termine nux e il verbo nocere. Tale nomea negativa sarà ripresa in epoca successiva anche da altri autori tra cui Pietro de’ Crescenzi che nel suo De Agri cultura scrive: “Il noce è detto perché nuoce, imperocché la sua ombra è nocevole agli altri arbori”.

Un Cibo altamente energetico

Le noci, a dispetto delle credenze che circolavano sulla pianta, erano molto apprezzate e utilizzate nell’alimentazione. Bonvesin della Riva, nel De Magnalibus Mediolani (fine XIII secolo), tra le meraviglie della città lombarda sottolineava come le noci raccolte nel territorio fossero in grado di sopperire al fabbisogno dell’intera popolazione.

Le noci erano considerate una buona fonte di reddito per il proprietario della terra; esse erano molto spesso presenti tra i canoni fondiari dovuti al padrone da parte dei coltivatori dipendenti. La noce, formata dal 50% di grassi, 15% di proteine, 25% di acqua e 10% di vitamine B1 e C, risulta un alimento molto energetico che certamente rappresentava un’importante risorsa nutritiva per gli uomini del Medioevo. Inoltre, poiché la noce si conserva a lungo, essa costituiva un’importante riserva di cibo. In alcune zone in cui si producevano in abbondanza, fornivano anche il prezioso olio che, spesso, sostituiva quello d’oliva, assai più raro e costoso.

La raccolta di noci, come mostrano le fonti iconografiche, avveniva a colpi di pertica; i frutti erano poi ammucchiati ed esposti al sole finché si fosse essiccata la buccia esterna per poterli, in seguito, facilmente sbucciare e conservare. Le fonti medievali ci informano che all’epoca si raccoglievano sia le noci verdi sia quelle più mature, secondo l’uso cui si intendeva destinarle. Le noci infatti erano perlopiù consumate fresche (recentes, vero depilatae), cioè prive della pellicola marrone e amara che le ricopre. Potevano anche essere condite immergendole nel vino e cospargendole di zucchero; altre venivano conservate sotto terra o nelle loro foglie secche, oppure rinchiuse in contenitori di legno di noce o ancora mescolate a cipolle fino al momento del loro utilizzo.

Va detto inoltre che il mallo veniva impiegato dai contadini in vari modi: come surrogato delle preziose e costose spezie, in particolare del pepe; come pane, nei periodi di carestia, impastandolo con altre sostanze di “recupero” quali radici di fichi e scorza di mandorle. La povera gente poteva giovarsene anche come espediente per risparmiare in combustibile nella preparazione delle vivande.


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In cucina non può assolutamente mancare!

Le noci costituivano un elemento fondamentale in cucina come ingrediente necessario per la preparazione di intingoli e piatti più o meno elaborati. In particolare i gherigli erano impiegati per preparare l’ “agliata”, una salsa che accompagnava “carni dure e grasse per renderle più digeribili e per stimolare l’appetito”. Il Platina, nel trattato De honesta voluptate et valetudine, riporta il procedimento per prepararla in modo corretto.

Le noci diventavano anche farcitura di carni e pesci, insieme ad erbe e spezie; un trattato di cucina toscano del secolo XIV ne indicava l’impiego nella preparazione di dolci, tra questi il famoso nucato, simile al torrone nero di Sisteron, in Provenza, paragonabile ai nostri croccanti a base di noci, nocciole, mandole e pinoli, impastati col miele.

La Parola al medico dietista

La dietetica medievale, pur riconoscendo alle noci un elevato valore nutritivo, ne sconsigliava il consumo alle persone con problemi di intestino debole o affette da tosse; lo raccomandava, invece, agli adolescenti per rinvigorire il corpo specie all’approssimarsi della primavera, agli anziani e ai soggetti melanconici, durante la stagione invernale, per via delle sue virtù “riscaldanti”. Marziale aveva provato a immergere le noci verdi nel miele, osservando che il consumo di quello stesso miele un anno dopo era un’eccellente cura per le arterie. Pietro de’ Crescenzi osserva invece che le noci, impastate con sale, miele e cipolle, erano ottime, sotto forma di impiastro, contro il morso di cani rabbiosi, mentre consumate con fichi e ruta all’inizio del pasto erano efficaci contro le intossicazioni alimentari e contro tutti i veleni.

I medici però, per parte loro, mettevano in guardia dagli effetti nocivi derivanti dal consumo eccessivo di noci: grandi quantità potevano provocare bruciori alla lingua e al palato oppure causare attacchi di tosse o mal di testa, vertigini o sete.

La noce trovava anche largo impiego nella farmacologia: la medicina medievale ne consigliava il consumo, fra l’altro, per combattere il mal di stomaco; in particolare l’applicazione dei gherigli sulle tempie era indicata per guarire emicranie e cefalee, mentre la stessa applicazione sul cuoio capelluto era un rimedio efficace contro l’alopecia, come tra l’altro sottolinea lo stesso Platina.

Curiosità - Il liquore delle streghe (La leggenda del nocino)

Una leggenda tramanda che nella notte di San Giovanni Battista, ovvero il 24 giugno, di un anno imprecisato del VII secolo, alcune streghe guidate dalla dea Diana vagarono a cavallo di una scopa per raggiungere il loro convegno annuale che si teneva sotto un vecchio noce: l’albero, “ornato” da una serpe a due teste d’oro, era situato all’esterno delle mura di Benevento. Era in quella notte che le donne dovevano raccogliere le noci utilizzando attrezzi che non fossero assolutamente di legno: con i frutti ancora verdi, immersi nell’alcool, veniva poi prodotto un liquore “miracoloso” chiamato nocino che, bevuto in occasione di situazioni difficili della vita, avrebbe potuto offrire protezione e soccorso.

La preparazione del magico liquore doveva però seguire un procedimento preciso: bisognava spezzettare 39 malli, essendo 39 un multiplo di 13, corrispondente al totale delle streghe presenti all’incontro di Benevento. Poi si dovevano mettere i pezzi di noce in infusione nell’alcool insieme a cannella o chiodi di garofano e lasciarli poi esposti alla luce naturale per 65 giorni (anche questo un multiplo di 13!); infine si filtrava il liquido, si aggiungeva dello zucchero e si lasciava a riposo per altri 13 giorni. Trascorso questo lasso di tempo il nocino era pronto per essere consumato nei momenti di bisogno recitando la formula “San Giovanni non vuole inganni”.

Sembra che questa leggenda sia stata ispirata dall’erronea interpretazione di un fatto realmente accaduto, ossia lo sradicamento di un grosso noce da parte di San Barbato, vescovo di Benevento tra il 663 e il 682, il quale riteneva quella pianta centro di attrazione di feste pagane celebrate in onore della dea Diana.

Fonte: da L. Balegno, in Medioevo. Un passato da riscoprire

Per approfondire

  • R. Grand, R. Delatouche, Storia agraria del Medioevo, il Saggiatore, Milano 1981

  • A.M. Nada Patrone, Il cibo del ricco e il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo, in Centro Studi Piemontesi, Torino 1981

  • A. Brugnoli, G.M.Varanini, Olivi e olio nel Medioevo italiano, Clueb, Bologna 2005

  • M. Pastoreau, Medioevo simbolico, Laterza, Roma-Bari 2005