Nella Bottega dello Speziale

 

Nella Bottega dello Speziale

L’attività dello speziale costituiva un vero e proprio universo: era un imprenditore, un artigiano e un mercante, allo stesso tempo. Nella compravendita dei prodotti e delle materie prime egli affiancava alla cultura, l’esperienza nella tecnica farmaceutica e la conoscenza delle pratiche mercantili.

Sul piano sociale, la professione dello speziale era considerata una via di mezzo tra l’occupazione intellettuale (come ad esempio quella del medico e del notaio) e le attività legate al commercio e all’artigianato. 

Ad uno speziale si richiedeva, in genere, qualche anno di apprendistato in una bottega e l’esercizio dell’attività implicava un vasto patrimonio di conoscenze e una certa professionalità. Gli speziali erano in genere paragonati ai medici: a Firenze, ad esempio, facevano parte della stessa corporazione che rappresentava una delle Arti Maggiori della città.

Come si diventa Speziale?

Dal punto di vista legislativo uno dei documenti di una certa importanza a questo proposito è l’Ordinanza Medicinale emanata da Federico II intorno al 1240. Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda metà del XIII secolo gli statuti degli speziali prescrivevano l’obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiavano spezie  e confezionavano medicinali, proibendo a chiunque di tenere a casa le materie prime utili per realizzare medicinali e medicamenti. 

Della corporazione degli speziali potevano far parte anche artefici minori, come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. A Firenze, invece, i farmacisti costituivano il membro minore della potente corporazione dei medici e degli speziali. L’iscrizione all’albo richiedeva alcuni anni di tirocinio, l’approvazione dei Maestri dell’Arte (spesso un vero e proprio esame!), il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente e il pagamento di una tassa alla corporazione. Una volta superato l’iter obbligatorio, lo speziale veniva dotato di un marchio con cui doveva sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega. 

Un’Attività abbastanza complessa

Lo speziale svolgeva un’attività certamente molto articolata. Nella Firenze del Tre-Quattrocento gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita discretamente alto; a Roma, negli stessi anni, molti speziali erano collegati alla curia pontificia ed erano anche banchieri, prestatori, commercianti all’ingrosso di preziose materie prime. Nel XIV e nel XV secolo investivano i profitti in terre e in una svariata gamma di attività come l’acquisto di taverne, botteghe, macelli. società per la lavorazione del pellame e del cuoio, gestione di mulini e attività estrattive.

Di che Cosa si occupava nel Concreto uno Speziale?

La pratica farmaceutica non era la sola attività degli speziali e la maggior parte degli statuti corporativi cittadini, dal Trecento in poi, si preoccupava di definire dettagliatamente quali fossero i loro ambiti di competenza e i prodotti sui quali avevano l’esclusiva di vendita.

La corporazione degli speziali di Milano comprendeva, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la cera e i droghieri. Agli speziali spettavano la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano e noce moscata. 

A Siena si ribadisce l’importanza della professione per la salute umana e la necessità di svolgerla, quindi, col massimo rigore e precisione. Erano previste sanzioni severe per quei farmacisti che, abbandonata la corporazione e non più in possesso di una bottega di riferimento, andavano a confezionare medicinali in abitazioni private o nelle botteghe altrui. Nel 1423, sempre a Siena, venne stilato un elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo e riso.

A loro volta i pizzicagnoli potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro e verde rame con cui coloravano la cera o lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere carta per scrivere, carta da imballo, filo, vasetti o barattoli per unguenti o profumi, i così detti “bossoli per spezie”.

Garantire la Qualità

Le disposizioni corporative di ogni città erano particolarmente preoccupate di tutelare la qualità dei prodotti. Si proibiva, così, di vendere, zafferano adulterato “alla maniera genovese”, cera di cattiva qualità, mescolata a grassi, oli e trementina, confetture contenenti amido o riso, e soprattutto medicinali contraffatti, pena aspre multe e il sequestro dei beni.

I medicinali - soprattutto teriache (elettuario aromatico-eccitante a base di oppio, veniva usato anche come antidoto per il veleno), unguenti, lattovari (polveri a cui venivano aggiunti sciroppi o miele), cerotti, sciroppi - dovevano essere confezionati secondo quanto disposto dal Collegio dei Fisici o dai consoli degli speziali, e venire sigillati con il marchio della bottega che li aveva prodotti. 

A Firenze e a Pistoia la corporazione esercitava un rigido controllo sulla qualità dei medicinali prevedendo che “veditori” o “saggiatori” facessero ispezioni periodiche, testandoli e verificando la condizione dei locali e delle scaffalature della farmacia. Precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, a servitori o a ragazzi di età inferiore ai venti anni o a prostitute. Potevano essere vendute solo dal maestro speziale o dal capo dell’officina e sempre dietro prescrizione medica.

Vi erano anche specifiche norme per evitare frodi legati ai pesi e alle misure. Funzionari appositi, i “taratori”, controllavano periodicamente (in genere ogni tre mesi) la precisione delle bilance; queste venivano adeguate alle bilance di riferimento della corporazione e queste, a loro volta, tarate su quelle del Comune.

Anche l’ubicazione dei locali della farmacia aveva una grande importanza nel garantire la buona preparazione dei prodotti e la loro conservazione. Preparare unguenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza, richiedeva una particolare attenzione sia dal punto di vista igienico e della pulizia dei locali, sia della loro ampiezza, luminosità ed areazione; inoltre, nelle vicinanze, non dovevano esserci esercizi commerciali come tintorie, macellerie e concerie.

Farmaci “semplici” e “composti”

Gli antichi trattati suddividevano i farmaci in due categorie: quelli “semplici”, costituiti da erbe, polveri minerali e spezie, e quelli “composti”, come elettuari, lattovari, unguenti, sciroppi. In alcune città italiane si doveva richiedere l’intervento di un medico prima di procedere alla preparazione di qualsiasi tipo di medicinale. A Novara gli speziali erano obbligati a ottenere il consenso del collegio dei fisici per la preparazione dei farmaci “complessi”.

Le medicine venivano preparate seguendo i dettami e le norme dettate dai ricettari che circolavano all’epoca, in particolare era molto seguito l’Antidotarium di Nicolò Salernitano, considerato nel secolo XV il testo ufficiale della farmacopea. Alla fine del Quattrocento iniziò a diffondersi anche il Nuovo Ricettario composto dal Collegio dei dottori di Firenze con lo scopo di uniformare le molte raccolte di ricette allora in uso.

Fonte: da M. P. Zanoboni, in Medioevo. Un passato da riscoprire

Se vuoi saperne di più:

  • L. Colapinto, L’arte degli speziali italiani, L’ariete, Milano 1991;

  • I. Ait, Tra scienza e mercato: gli speziali a Roma nel tardo Medioevo, Istituto di studi romani, Roma 1996;

  • R. Macchi, Cenni storici sul collegio degli aromatori della Città di Milano 1898;

  • R. Ciasca, L’arte dei medici e speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal secolo XII al XV, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1927;

  • I. Naso, Medici e strutture sanitarie nella società tardo medievale: il Piemonte dei secoli XIV e XV, Franco Angeli, Milano 1982;